domenica 29 settembre 2013


IV Incontro – 24 maggio 2013

“Esclusione dalla cittadinanza: forme di allontanamento materiale e perdita di diritti politici e civili”

Giacomo Todeschini:  “Corpora vilia. Postura economica, appartenenza all’ordine naturale ed esclusione civica fra XIV e XVI secolo”

Reputazione e credibilità della persona si fondano su basi economiche: analizza trattato senese De indiciis et tortura di Francesco Bruni, della fine del Quattrocento, ed in particolare le categorie di persone che, in base a questo testo, potevano essere torturate: ‘viles’ e ‘ignoti’ divengono due categorie che si sovrappongono.
L’esclusione viene in alcuni casi ricondotta all’assenza di capacità intellettive (e conseguente incompetenza economica): i cittadini esclusi appartengono a gruppi di cui non è verificabile la capacità intellettiva. Intersezione tra marginalità e natura, quanto la marginalizzazione sia legata allo ‘ius naturae’. Lo interessa il processo di disumanizzazione che colpisce alcuni gruppi sociali, le forme, in particolare, di animalizzazione con cui, a diversi livelli, vengono ritratti i marginali che presentano, agli occhi di canonisti e civilisti, caratteristiche fisiche di inaffidabilità/incompetenza economica. Esempio degli usurai, che il II Concilio Lateranense del 1139 condanna, ricorrendo alla definizione di insani/rapaci/infami, attraverso un vocabolario che sottolinea la loro inumanità: vi è dietro una lunga tradizione testuale, che parte quantomeno da Isidoro da Siviglia, in cui gli usurai vengono accostati a categorie di animalità.
La sovrapposizione del diritto naturale ai Vangeli, che opera il diritto canonico del XII secolo ed in particolare il Decretum Gratiani, segna l’ingresso della natura nel regno dell’arbitrarietà: che rapporto esiste tra la definizione canonista dello ‘ius naturae’ e la definizione dell’usuraio come insaziabile e rapace? Lo ‘ius naturae’ è attratto all’interno di un campo discorsivo culturale all’interno del quale gli si può far dire un po’ ciò che si vuole.
Esistono tutta una serie di azioni creditizie che implicano il pagamento di interessi, ma che possono essere fatte nel bene della chiesa: per esempio quando si tratta di recuperare dei beni ecclesiastici. Il problema quindi non è l’usura, non il credito, è piuttosto l’inquadramento della categoria di persone che praticano queste attività. L’attenzione si sposta dalle pratiche ai soggetti che praticano quelle pratiche.
Ci sono dei comportamenti che appartengono alla natura (compra-vendita) altri no (servitù). Per Thomas di Chobham (inizio Duecento), gli usurai sono trasgressori perché si ribellano al diritto della chiesa provocando uno scandalo. Il peccato, per Chobham, è nudità, deformità, una via per la fuoriuscita dalla natura umana. Il peccato fa dell’uomo una creatura nuda e irriconoscibile. Interessante la metafora monetaria usata per descrivere la deformità che investe il peccatore: come avviene per la moneta da cui è scancellata l’immagine dell’imperatore, il peccatore perde l’immagine e non viene più riconosciuto da Dio e dagli altri. Una metafora analoga è contenuta anche in una palea del Decretum. Secondo Chobham, il peccato trasforma in animali, trasforma in nullità, bisogna amare il prossimo solo se il prossimo somiglia a Dio, altrimenti no.
Enrico da Susa, intorno alla metà del Duecento,  sottolinea la bontà dell’azione creditizia se compiuta nell’interesse della Chiesa; rappresenta un’azione appartenente a pieno titolo all’ordine di natura, se da essa si trae vantaggio.
Nella seconda metà del XIII secolo, Remigio de Girolami afferma che il comportamento usurario è contra natura vegetabilium- si oppone cioè alle pratiche economiche buone che sono fruttifere (i termini fruttuoso/fertile sono in generale parole molto ricorrenti). Per stabilire l’appartenenza/non appartenenza alla natura si assume quindi il criterio  della produttività o improduttività: chi non produce è sterile, infruttuoso, così l’usuraio che è sterile perché il suo denaro non è denaro ‘vero’.
Analizza una serie di testi letterari: caso celebre di animalizzazione è quello di Vanni Fucci, che Dante ritrae in una tana, come una bestia. A metà del Trecento, la trasgressione economica viene rafffigurata come oscura bestialità, è un discorso che trascende l’opera dantesca. Boccaccio ritrae coloro che si arricchiscono non per avidità, anche se il guadagno va oltre il bisogno e anche se prestano denari a terzi. Siamo di fronte a una sorte di secolarizzazione dei discorsi ecclesiastici: la pratica economica dell’accumulazione del profitto può essere buona o cattiva, non lo è in sè, ma alla luce dell’indole delle persone che gravitano su questo tipo di affari.
Le prediche di Bernardino da Siena, nella prima metà del Quattrocento, parlano molto di economia, ed è intenso il ricorso che in esse si fa agli animali per condannare comportamenti economici aberranti: l’avaro, l’usraio, hanno una natura aberrante, perché è aberrante la natura di certi comportamenti economici. Disumanità di certe persone e comportamenti, come nel caso delle donne che hanno la coda.
Il paragone tra questi testi di provenienza diversa (dottrinario-giuridica, letteraria, religiosa) è interessante per gli interscambi linguistici che esistono tra essi, e perché consentono di identificare la contemporanea rilevanza di alcuni temi in settori diversi.

Discussione:

Emanuele Conte: si chiede se questa eco di argomenti tra settori diversi, su cui tanto insiste Todeschini, rimandi a una centralità del diritto nel pensiero basso-medievale e ad una sua influenza in altri campi.

Sandro Carocci: lo interessa il testo di Bernardino da Siena, all’interno del quale il riferimento alla grotta e alla tenda davanti all’ingresso gli sembra di carattere tecnico, e non necessariamente alludente al discorso dell’animalità. L’usuraio lavora dietro a una tenda per non farsi vedere e il riferimento alla spelonca rimanda piuttosto alla segretezza dell’attività.

Giuliano Milani: richiama l’attenzione sul testo di Boccaccio e sulle eccezioni al peccato di avarizia. Si chiede se esistono dei precedenti, non rinvenendosi questa idea in Dante, per esempio.

Giuliano Milani: “Tra bando e scomunica: forme di esclusione dalla civitas e dall’ecclesia

Il tema è la relazione tra sistemi di esclusione ecclesiastici e comunali nelle città italiane del Duecento. Questa relazione è indagata sia in termini di analogia funzionale (in cosa si somigliano queste due sfere), sia di reciproche influenze (come si modificano vincendevolmente). Il contesto scelto vede una compresenza strettissima di due ordini giuridici.
Quanto all’analogia ad accomunare bando e scomunica è il carattere in negativo, il fatto di consistere in un’esclusione da qualcosa (la comunione, il godimento dei diritti di cittadinanza), che li differenzia in modo profondo dalle pene dei moderni ordinamenti. Non sono pene, ma un modi per costringere qualcuno a obbedire. Questo costringere qualcuno a obbedire privandolo di ciò che gli si dà abitualmente, questo escludere dal patto chi non lo rispetta rendono bando e scomunica uno strumento politico fondante, quello che Mary Douglas invoca per la creazione delle istituzioni e che Giorgio Agamben pone all’origine della categoria del politico.
Supporre che bando e scomunica siano espressioni di questo tipo di meccanismo che serve alle istituzioni ( a ogni istituzione) per stabilire il perimetro che la definisce, consente di risolvere alcuni problemi che si sono spesso presentati nella storiografia.
Uno è quello delle origini, che diventa un falso problema: non è infatti possibilie supporre che che siano nati solo in culture germaniche o latine o ebraiche e così via, sono nate molte volte.
Un altro problema è quello della variazione di livelli di gravità ovvero dell’esistenza di bandi medicinali e mortali, scomuniche e anatemi. Sebbene in molti momenti queste distinzioni sono formalizzate in realtà sono continumente poste in discussione, perchè in ogni provvedimento di questo tipo coesisteno sempre, magari in dosi diverse, una promessa di reintegrazione e una minaccia di esclusione definitiva.
Quanto alle influenze reciproche, è molto difficile decidere se il bando crea la scomunica o viceversa perchè da tempi molto antichi ( le fonti che conosco risalgono almeno al secolo IX) sono usati insieme come parte di un sistema caratterizzato dall’”ambiguità delle istituzioni” che sono  sia laiche sia ecclesiastiche. È molto utile però capire come la riflessione maturata in uno dei due campi poi vada a finire nell’altro. Così per esempio la chiesa prende dal mondo diciamo laico l’idea che la scomunica sia la conseguenza della rottura di un patto, in questo caso con Dio. Viceversa il bando assume dalla scomunica elementi penitenziali, che si concretizzano, per esempio nel confino visto come purgazione.
I contatti si intensificano in due momenti particolari. Il primo è negli anni 1180-1190 quando si rafforzano notevolmente i tribunali ecclesiastici e comunali dopo la morte di Enrico VI. A questa fase risale la riflessione sul ruolo che in questi provvedimenti ha la contumacia. Un secondo momento è quello successivo alla morte di Federico II, quando la dottrina per la prima volta, con l’Ostiense, stabilisce che gli scomunicati non possono contrarre obbligazioni e che chi ha contatti con gli scomunicati deve essere colpito. In questo nuovo clima nel Urbano IV riesce a creare delle parti guelfe in Toscana e dopo di lui si diffonde una nuova persecuzione, al tempo stesso civile ed ecclesiastica, dei sospetti di connivenza con i nemici politici.



III Incontro

19 aprile 2013

DOVERI FISCALI E FORME DI APPARTENENZA ALLA COMMUNITÀ CRISTIANA E ALLA « CIVITAS »

Michel Lauwers: La citoyenneté à l’épreuve des constructions ecclésiales. Dîme, ‘dominium’ universel et appartenances communautaires dans l’Occident médiéval”

Dans l’historiographie italienne, l’élaboration médiévale de la « citoyenneté » et parfois même la naissance du « politique » sont volontiers rapportées au contexte communal et aux réflexions d’intellectuels dits « laïcs », souvent juristes et commentateurs du droit romain. S’il est nécessaire d’apprécier les particularités et la nouveauté qu’ont représentées les communes urbaines dans l’Occident médiéval, il faut comprendre également que les discussions autour de la citoyenneté qui se sont développées dans le monde communal, notamment dans la seconde moitié du 12e et au 13e siècle, ne sont pas sans lien ou sans analogie avec un certain nombre de constructions ecclésiales, dont les fondements ont été posés dans l’Europe carolingienne. On pense aux questions qui ont intéressé les juristes – et sur lesquelles ont travaillé certains des participants au séminaire sur la Cittadinanza : sur la
manière, par exemple, d’articuler la citoyenneté universelle définie dans le droit romain et les identités communales, qui étaient locales, sur la façon de concilier la « commune patrie » et la résidence – autant de questions qui pouvaient avoir des implications concrètes, en particulier en matière de fiscalité. Il convient ici de souligner que l’Ecclesia définit tôt une appartenance communautaire articulant communauté universelle et résidence locale, rompant avec les distinctions civitas / urbs, origo / domicilium. L’histoire de la dîme peut être replacée dans cette perspective. Ce prélèvement y apparaît stratégique : parce que la dîme a fondé la communauté chrétienne, en même temps qu’elle a renforcé la cellule locale.

Dans l’Europe du haut Moyen Âge, c’est un dominium partagé sur les églises et les dîmes (partagé entre ecclésiastiques et puissants laïcs) qui a prévalu. À partir du milieu du 11e siècle, toutefois, dans le contexte de transformation de l’institution ecclésiale désigné communément sous le terme de « réforme grégorienne », la dîme fut de plus en plus envisagée comme un impôt universel, exclusivement ecclésiastique : nécessairement prélevé partout et par les clercs seulement. Si l’on admet que la situation antérieure était celle du dominium partagé, il faut y voir une sorte de captation de la dîme par les seuls clercs, soit une véritable ‘invention’ de la dîme.
Si le prélèvement des dîmes devait porter sur toute forme de production, c’est en réalité sur les terres et le produit agricole que les dîmes ont été le plus souvent prélevées. Entre l’époque carolingienne et le 12e siècle, le prélèvement a été envisagé de deux manières différentes : soit selon une logique patrimoniale ou foncière (lorsque les documents évoquent par exemple les dîmes qui relèvent de telle église, qui constituent son patrimoine et dont le produit est dû à cette église), soit selon une logique personnelle (lorsque le prélèvement des dîmes est envisagé comme l’un des échanges qui fondent la paroisse et instaure un lien entre le fidèle et son « propre prêtre »). Jusqu’au 12e siècle, les contradictions éventuelles entre ces deux logiques de prélèvement, patrimoniale et personnelle, ne semblent jamais évoquées ; les deux dimensions de la dîme ne sont même jamais articulées : soit les dîmes renvoient à un ensemble de biens localisés, parfois territorialisés, relevant d’une église ; soit elles sont vues comme une sorte de contre-partie due par les fidèles au prêtre qui assure pour eux un service
liturgique.
Au milieu du 12e siècle, le canoniste Gratien relève - me semble-t-il pour la première fois – les discordances possibles entre structure foncière et structure paroissiale. Dans la Cause 13, question 1 de son Décret, il expose un casus mettant en scène des paysans qui ont abandonné, pour motif de guerre, le territoire de leur église ancestrale pour celui d’une autre église, qu’ils fréquentent désormais, où ils se font inhumer et à laquelle ils paient la dîme ; les migrants n’ont pourtant pas abandonné leurs champs, qu’ils continuent à cultiver ; cinquante ans après leur départ, les dîmes et les prémices dues par ces terres sont réclamées par la première église. En présentant de manière détaillée l’argumentaire de l’une et de l’autre églises, Gratien pose en réalité la question de savoir si la dîme est due à l’église du domicile des fidèles (dans le cas évoqué, celle du lieu dans lequel les paroissiens se sont transférés) ou à celle du lieu où sont situées leurs possessions foncières (c’est-à-dire leur église ancestrale). Pour les partisans de cette dernière solution, le fidèle doit payer la dîme à l’église du lieu où sont établies ses possessions foncières plutôt qu’à l’église dans laquelle il reçoit les sacrements. Gratien ne tranche pas nettement, mais paraît admettre que le lieu de culte fréquenté par les fidèles, proche de leur domicile, c’est-à-dire l’église paroissiale, ne soit pas l’église à laquelle les fidèles paient la dîme – en tout cas, il constate ce fait.

Au début des années 1160, l’auteur parisien d’une Somme sur le Décret relève les logiques (« selon l’habitation » ou « selon les biens-fonds ») en fonction desquelles les fidèles peuvent acquitter la dîme. En commentant le Décret, Étienne de Tournai évoque aussi les deux logiques. Les clercs de la seconde moitié du 12e et du 13e siècle ont ainsi établi une double distinction:
1) une distinction, tout d’abord, relative à l’assiette du prélèvement : certaines dîmes, que l’on qualifie au 13e siècle de « dîmes prédiales », portaient sur les possessions foncières et les récoltes, tandis que d’autres, les « dîmes personnelles », pesaient sur les profits de l’artisanat ou du négoce – ce type de distinction paraît analogue à celle que posaient le droit romain et les civilistes des 12e et 13e siècles entre les munera patrimonalia et les munera personalia 2) mais la distinction relative à l’assiette du prélèvement se double, dans les définitions de la dîme que donnent les canonistes, d’une autre distinction relative au mode de prélèvement : on peut prélever la dîme en considérant la situation des possessions (intuitu praediorum) ou celle des contribuables (intuitu personarum).
Or, il paraît clair que la logique « prédiale » s’impose dans la seconde moitié du 12e et au 13e siècle : 1) on prélève la dîme essentiellement sur les produits de la terre (en dépit des principes affichés, les « dîmes personnelles » n’étaient que rarement perçues), et 2) le prélèvement se fait en fonction de la situation de ces terres (et non de celle des contribuables). 
En reprenant, dans la perspective du séminaire, l’étude de Sara Menzinger sur « Fisco, Giuridizione et Cittadinanza », on note la coïncidence entre les solutions territoriales ou « prédiales » que prescrivent les clercs (il faut payer les dîmes à l’église dans le territoire de laquelle se trouvent les terres dîmées, même quand ce n’est pas l’église que l’on fréquente régulièrement) et la revendication des gouvernements urbains (à peu près à la même époque) de prélever les taxes sur les terres situées dans leur territoire, même lorsque ces terres ne sont pas tenues par des citoyens de la cité. Rolando da Lucca, qui soutenait ce droit, explique à ce propos que ce n’est pas à Lucques, sa cité et sa « patrie », mais à Pise, où il possède des terres, qu’il doit les faire enregistrer et payer sa contribution. Cette dissociation entre la relation des individus à leur cité et leur obligation de payer à d’autres cités pour les terres qu’ils possèdent dans les territoires de ces cités paraît assez similaire à ce qui se passe dans l’Église, où les fidèles remettent la dîme non pas à leur église, l’église qu’ils fréquentent et que leurs ancêtres ont fréquentée, mais à l’église sur le territoire de laquelle se trouvent leurs bien-fonds : il y a bien ici disjonction entre le système « paroissial » (c’est-à-dire les relations fondamentalement (inter)personnelles entre les fidèles habitatores d’un lieu, leur prêtre et leur église) et le système de prélèvement des dîmes qui renvoient plus à l’organisation des patrimoines et des territoires qu’à celle des personnes.
À partir du 12e siècle, les mêmes problèmes, ou des problèmes semblables, étaient donc posés dans l’Église et dans la cité. Et des solutions assez semblables étaient mises au point. Il conviendrait de s’interroger, à propos de ces questions précises, sur les échanges entre droit canonique et droit romain, entre les clercs et les gouvernements urbains – et gouvernements étatiques en général. Les arbitrages de Rolando à Lucques, par exemple, pour régler différents litiges relatifs à la taxation, litiges impliquant parfois des institutions ecclésiastiques et portant parfois sur les dîmes, pourraient avoir été l’occasion de tels échanges. On a souvent dit (plutôt que démontré) que la dîme, première taxation universelle, avait été le modèle de l’impôt d’État [mais elle fut aussi un modèle pour le prélèvement seigneurial]. On gagnerait certainement beaucoup à croiser les réflexions des canonistes et des civilistes, des institutions
communales et de l’institution ecclésiale sur les appartenances communautaires et sur le rôle de la taxation dans la définition de ces appartenances. La question va au-delà du comparatisme ou même du parallélisme entre les institutions communales ou étatiques et l’institution ecclésiale. La question (sans doute un peu paradoxale au regard de l’historiographie italienne récente) serait la suivante : dans quelle mesure l’Église a-t-elle représenté un modèle pour fonder la citoyenneté (et la fiscalité) ? Car les constructions ecclésiales étaient efficaces…

Sara Menzinger: “Pagare per appartenere: giustificazione teorica del prelievo tra XII e XIII secolo”

Dando uno sguardo di insieme alle teorie sulla cittadinanza  che cominciano a circolare tra il XII e il XIII secolo, ciò che balza in primo luogo agli occhi è l’implicita associazione che compiamo traducendo il termine cittadinanza come insieme di diritti e privilegi. Dalla riflessione giuridica colta, emerge bene quanto il significato prevalente del termine civis, almeno per i primi secoli della storia comunale, rimandi a un insieme di doveri molto più che di diritti, che sono doveri certo militari, ma soprattutto fiscali. Il nesso che viene stabilito tra civis e munera (obblighi) è talmente intenso, da non lasciare dubbi in merito all’idea per cui l’adempimento degli obblighi fiscali rappresenti per un lungo periodo la componente davvero qualificante per la cittadinanza. Per questa ragione, un’indagine sulle teorie del prelievo fiscale può costituire un osservatorio privilegiato per mettere a fuoco le logiche di appartenenza nell’esperienza cittadina italiana.
All’incrocio dell’esperienza politico-intellettuale tanto della civitas quanto dell’ecclesia, vi è una fondamentale esigenza comune: superare un criterio di ripartizione personale delle imposte, da sostituire con sistemi di tassazione a base fondiario-patrimoniale: l’aspirazione a una dimensione territoriale del potere, comune a tante realtà politiche europee del XII secolo, implica, tanto in campo ecclesiastico che laico, una nuova concentrazione sulle cose, sui beni che costituiscono materialmente una diocesi o l’area di influenza territoriale cittadina, a scapito dei legami personali. Ai fini del discorso che qui interessa, come si riverberino cioè queste novità sull’idea di appartenenza di un individuo alla comunità, l’implicazione maggiore sembra essere lo slittamento da un’idea di comunità come espressione degli individui che la compongono, a un’idea di comunità consistente essenzialmente dei beni degli individui che la compongono.
L’inscindibile legame della decima con la terra come quota dei frutti da essa derivanti, costituisce un appiglio importante per chi nel XII secolo si faccia sostenitore in campo ecclesiastico di una logica fiscale ordinata dal criterio fondiario. Nel mondo urbano la novità è maggiore, e la nuova enfasi che viene posta sui legami tra terra/possessore/territorio è funzionale anche all’introduzione del criterio proporzionale nella riscossione delle imposte. Lo studio del diritto pubblico romano rafforza la convinzione che le imposte debbano essere calcolate proporzionalmente alle ricchezze dei contribuenti, un’idea che, con ogni probabilità, circola già nella seconda Dieta di Roncaglia del 1158, quando tanti rappresentanti della scienza giuridica comunale (per l’esattezza 28 iudices) vengono chiamati a fornire all’Imperatore svevo un quadro della fiscalità tardo-antica. La conoscenza dei Tres Libri giustinianei, che va solo approfondendosi nei decenni successivi a Roncaglia, mette a disposizione degli esperti di diritto – e quindi dei governi – comunali l’articolata struttura della fiscalità romana ed in particolare la centralità che in essa avevano rivestito le imposte dirette e proporzionali sui patrimoni, i cosiddetti munera patrimonialia. La coscienza che questi vanno ad affiancarsi all’altro tipo di obblighi invece ampiamente noti e sfruttati per tutto il Medioevo, la categoria dei munera personali – prestazioni d’opera consistenti cioè in un’applicazione sia della mente che del corpo (ma nell’accezione altomedievale, principalmente del corpo) – la coscienza di questa bipartizione pone in modo sorpendentemente sincronico in campo ecclesiastico e laico il problema di dove vadano pagate le imposte che gravano sui patrimoni. Se cioè debba prevalere una prospettiva personale, secondo la quale le imposte si versano là dove una persona risiede e ha la sua rete di rapporti interpersonali, o se debba prevalere una prospettiva reale, fondiario-patrimoniale, all’interno della quale il criterio organizzante sia la terra.
Dalla disamina delle convinzioni espresse in proposito dai giuristi comunali per circa un secolo e mezzo, emerge infatti, a partire circa dagli anni Sessanta/Settanta del Duecento, una generale recessione dalle idee di territorialità che tanto avevano alimentato la cultura politica del primo comune: la convinzione presente nella pubblicistica pre- e inizio-duecentesca, secondo la quale la città era competente fiscalmente e quindi giurisdizionalmente su tutto il proprio territorio, a prescindere dallo status di chi vi abitava, comincia infatti ad essere sostituita, a quest’altezza, dalla teoria per cui i governi urbani possono chiedere sì imposte personali e patrimoniali, ma solo ai cives della propria città.
A questo cambiamento di prospettiva contribuiscono fattori diversi: l’alta conflittualità politica interna alla civitas che pone in primo piano la pars a scapito dell’universitas, sulla fazione a scapito della res publica, la sostituzione della familia alla comunità, sembrano velocemente tradursi, in materia di cittadinanza, in un’esaltazione dei legami di sangue, in una prevalenza della persona sulla cosa, del legame personale su quello territoriale. Ma non v’è solo questo: vi è in qualche modo un cambio di obiettivi nella politica fiscale cittadina che se a partire dagli inizi del XII secolo ha avuto come scopo primario quello di riuscire a tassare i beni del contado appartenenti soprattutto alla Chiesa e ai milites, negli anni Sessanta/Settanta del Duecento è ormai giunta forse a priorità diverse: in primo luogo quella di ottenere dai cives le imposte patrimoniali, a fronte sia del fenomeno dell’evasione diffusa documentata tra gli altri recentemente da Massimo Vallerani, sia a fronte di una mutata concentrazione delle ricchezze; negli anni Settanta del Duecento sono ormai i cives e non più i signori ecclesiastici e laici del contado ad avere concentrate nelle proprie mani le ricchezze davvero significative per le città: teorizzare quindi il ritorno dalla res alla persona nel criterio di ripartizione delle imposte può essere interpretato come il segnale non solo di un certo regresso del principio della territorialità, ma anche di urgenze differenti rispetto al passato.
Legando l’identità di civis agli obblighi fiscali, e dominando tra questi ultimi la colletta come imposta diretta e proporzionale sul patrimonio, l’allineamento civis/collecta/domus (o predium) porta molto vicino a qualificare cives i proprietari. Ai servizi prestati dalla comunità deve corrispondere una contropartita, ai soldi versati dai contribuenti una prestazione. E’ ciò che Ennio Cortese ha definito come il carattere ‘sinallagmatico’ del prelievo medievale, in conseguenza del quale ciascuna tassa deve essere collegata a un preciso servizio da parte del potere statuale. Un rapporto contrattuale quasi privatistico tra autorità richiedente e contribuente.
Intorno alla fine del Duecento, comincia a circolare una domanda interessante nel materiale questionante: si può parlare di cittadinanza in assenza di munera? Benché la solutio prevalente sia affermativa, ossia è valida la concessione di cittadinanza a uno straniero con la clausola che costui non sia sottoposto al pagamento delle collette, le argomentazioni contrarie sono assai più ricche di quelle ad essa favorevole, cosa che non sorprende data la struttura dialettica della quaestio. A sostegno dell’idea per cui  la cittadinanza non possa essere scorporata dai munera convergono nella dottrina civilistica motivazioni di varia natura: 1) nessuno può sottrarsi a contributi fiscali indetti in situazione di necessitas, tipicamente rappresentata da condizioni di guerra e fame; 2) i munera rappresentano l’effetto della cittadinanza, che scorporata da essi diverrebbe nudum nomen sine effectu dando origine a una situazione contra ius. L’accordo stipulato dal comune con lo straniero che non intenda essere sottoposto a munera non è perciò legittimo, perché non è corretto usufruire dei benefici della cittadinanza e rifiutarne gli oneri, né acquistare la cittadinanza senza gravami che pesano sulle spalle degli altri cives: turpe è la parte che non corrisponde al suo intero. Neppure è corretto scorporare la collecta dagli altri munera, costruire cioè un rapporto di cittadinanza su una serie di obblighi da cui sia esclusa questa fondamentale forma di imposta diretta e proporzionale. Il ragionamento, in Dino del Mugello, si conclude con una domanda davvero incisiva: a chi servirebbe un cittadino perpetuamente inutile? Cosa dovrebbe farsene la città di un civis che non paga le imposte? Poco distanzierebbe costui da una terra sterile:  come non può essere dato alla Chiesa un fondo improduttivo, così un civis inutile alla città – che alla Chiesa va equiparata.

Massimo Vallerani:Obblighi fiscali e livelli di cittadinanza nei comuni italiani”

legame cittadinanza - fiscalità è costitutivo dell'appartenenza locale in contesti urbani.; lo si può verificare in positivo ma soprattutto in negativo, quando si guarda l'apparato repressivo messo in campo per controllare l'effettivo pagamento delle imposte: già nel saggio di Dina Bizzarri (“Ricerche sul diritto di cittadinanza…”) si notava che l'evasione delle imposte dirette era uno dei pochi motivi per i quali si poteva essere privati della cittadinanza o dei diritti civili,  secondo una formulazione ambigua (p. 95). Il pagamento delle collette è inserito tra i doveri fondamentali e, stabilito il nesso, la pena per gli evasori era altissima. A livello giurisdizionale ciò si traduce nella creazione di elenchi dei ‘malpaghi’ con conseguente sospensione della giustizia per chi appartiene a questi elenchi.
- le collette (imposte dirette sul patrimonio) erano numerose e l'importo era basso, ma la macchina amministrativa veniva messa in moto più volte l'anno.
- molti erano esenti, vale a dire che alcuni compensavano con i prestiti al comune, ma l’area di evasione ordinaria, cioè la quota delle persone che non pagavano le singole collette era alta, intorno al 20% e questo in condizioni diciamo normali.

Guardando all’esempio di Bologna, è possibile constatare che il momento di emergenza maggiore si ebbe negli anni 1311-13, quando le spese militari lievitarono in maniera geometrica mettendo a nudo la debolezza del meccanismo finanziario dell'imposta diretta. Si trattava di un'emergenza politica, ma l’aspetto emergenziale è condiviso da tutti i grandi comuni di popolo, Siena e Bologna etc.: in quegli anni gli incipit delle riformagioni tendono ad assumere una veste più ideologica, improntata alla necessitas ma anche all'equitas, alla distribuzione equilibrata dei carichi, alla certezza che anche le borse dei ricchi venissero intaccate. La percentuale di evasione tuttavia è sempre molto alta: esplode nei primi del Trecento e come reazione provoca un inasprimento della normativa, una grande operazione di conta degli evasori. Le norme del 1311 contro i ‘malpaghi’ sono eloquenti:  vale la pena sottolineare ancora una volta  la stretta connessione fra provvedimento e la sua immediata traduzione in scrittura seriale in forma di lista. Come atto di governo basato sulla selezione e individuazione di una parte di cittadinanza infedele o debole, la lista è lo strumento naturale per la sua realizzazione.
Nella punizione degli evasori, si assiste a una criminalizzazione dell’evasione in caso di assenza. Qui opera un noto meccanismo di analogia che equipara gli assenti ai banditi Lambertazzi, cioè a traditori politici del comune. Nel 1312 l’istituzione del grande libro dei debitori di Bologna divide gli evasori in due categorie: fino al 1306 e dal 1306 al 1312: chiara la natura politica del provvedimento, perché il 1306 era l’inizio del nuovo regime guelfo e dunque gli evasori erano visti potenzialmente come oppositori al regime.
Sulla giustizia penale: come si è detto la carica repressiva delle norme statutarie, implementate dalle provigioni di emergenza del 1311-1312, sono essenzialmente di carattere negativo: limitano la protezione, anzi la tolgono del tutto, impedendo di rendere giustizia ai ‘malpaghi’ del comune. La pena, come si vede, è per sottrazione, ma corrisponde perfettamente al vero nucleo positivo della cittadinanza: in fondo cosa offriva la città ai singoli cives? La protezione delle persone e dei beni.
Nei processi tra il 1311 e il 1315 presenti numerosi casi di interruzione del processo perché la vittima era ‘malapago’ e dunque non meritevole di protezione. Queste cause mettono in luce l’applicazione stretta del divieto di rendere giustizia ai malpaghi e l’adesione dei giuristi a questo divieto attraverso un controllo della presenza del nome sui fogli del registro magnum dei malpaghi: una pura attività certificatoria che mette al centro il lbro dei malpaghi.

Questa centralità del libro testimonia quanto centrale sia il tema delle liste per capire la storia politica del comune medievale e delle tecniche di governo. La politica di recupero dei beni comuni cittadini, portata avanti da tante città nella prima metà del XIII secolo, consisteva fondamentalmente di  inchieste che si traducevano, sul piano documentario, in complessi atti in  forma di elenco, che attestavano le definitiones di beni o di persone soggette fiscalmente al comune. È importante sottolineare questo aspetto schiettamente patrimoniale della politica comunale del primo Duecento perchè ha influenzato profondamente la produzione documentaria successiva, con la moltiplicazione di quaderni e atti seriali in forma di lista. Il fisco, lungi dall’essere un semplice strumento amministrativo era al centro della definizione giuridica e politica della cittadinanza e dei suoi limiti.
Le liste composte a fini fiscali attestano il bisogno di contare le differenze, misurare gli scarti, i resti, le somme dovute, rimandando a una più pervasiva esigenza di registrare in "forma di conto", distinto in attivo e passivo, l'attività degli ufficiali comunali. Una sorta di traduzione in bilancio dell’esercizio delle funzioni pubbliche. I libri di entrata e uscita consentivano infatti di pensare l'amministrazione in termini numerici, di cose avute e date, di beni passati da un soggetto all'altro, rendendo però esplicito quanto e a chi era stato dato, oppure, operazione altrettanto importante, quanto e da chi il comune doveva ricevere. Al dato politico della distribuzione si era unito, come si è visto, il dato più "ideologico", oltre  che economico, della contribuzione, del dovere di sostenere la civitas per avere riconosciuti i diritti di appartenenza.
In parallelo, in base all’estimo, erano raccolte le imposte dirette, il fodro e il dacitum, con registri di nomi e la quantità di denaro pagato. Una lista che, a sua volta, ne generava un’altra, derivata, con i nomi di quelli che non avevano pagato il fodro. Il debitore viene gradualmente equiparato al reo di maleficio: ciò segna un passaggio importante della disciplina del debito nei comuni italiani dove il pagamento delle imposte, o comunque l’iscrizione all’estimo, era un segno di partecipazione diretta in grado di assicurare l’appartenenza di un individuo alla città e l’integrazione della persona nel sistema giuridico di protezione pubblica.
La natura economica del rapporto dei cives con le istituzioni affonda chiaramente le radici in quel contesto di dominio patrimoniale del comune sulle res, ma mostra anche un processo di ampliamento importante di questa dimensione patrimoniale: una sorta di iscrizione delle forme di appartenenza alla città nella sopravvivenza materiale del comune. La contribuzione al comune non era solo un dovere civico, ma una condizione necessaria per definire lo status di civis. Si trattava in tutti i casi di un debito verso il comune; stava ai cives onorare questo debito o finire nei libri dei debitori insolventi.

venerdì 24 maggio 2013

22 Marzo 2013



Cittadinanza politica nel Medioevo bizantino e islamico




Cittadinanza politica nel Medioevo bizantino e islamico

Giuliano Milani: il primo incontro del nostro seminario (4 marzo, Wickham/Ascheri) è stato dedicato alla nozione della cittadinanza in una fase antecedente alla formalizzazione teorica e pratica di tale concetto. Questo secondo incontro si concentra su un aspetto particolare della cittadinanza intesa come “mestiere” del cittadino, ovvero l’esperienza della rivolta. Per certi aspetti la rivolta costituisce un momento chiave poiché può generare (non sempre ci riesce) nuove possibilità di appartenenza. La rivolta anche per questo non costituisce un argomento neutro nella ricerca storica perché più di altri temi attrae proiezioni ideologiche da parte di chi la studia: implica cioè una riflessione serrata su quale sia il “carattere” della rivolta (sociale, politica etc.). L’attenzione alle interpretazioni storiografiche delle rivolte, prestata da Marco Di Branco nelle sue ricerche sulle realtà urbane bizantine, in particolare Atene, e da Patrick Lantschner nel lavoro sulla rivolta dei Ciompi, è la ragione principale per cui è sembrato opportuno affidare a loro la trattazione di questo argomento.  

Patrick Lantschner: Rationalities of Revolt and the Political Order of Cities

L’esistenza di teorie diverse ma convergenti che si sviluppano attorno agli atti di resistenza evocano una lunga tradizione di rivolte nelle città italiane e del Vicino Oriente. La comparazione tra queste realtà è resa legittima da elementi comuni, come l’eccezionale densità di popolazione in contesti urbani, che caratterizza, nell’epoca basso-medievale, l’Italia centro-settentrionale e le città medio-orientali nel panorama mediterraneo, se non mondiale. Violenti conflitti politici caratterizzano entrambi i contesti, e vi sono interessanti analogie e differenze tra le strutture politiche urbane: la differenza principale è che le città del Vicino Oriente non hanno un assetto comunale di governo urbano come in Italia, perché sono amministrate dall’elite militare mamelucca. Dunque le rivolte, che in Italia sono dirette contro il governo cittadino, sono viceversa, nel contesto urbano medio-orientale, rivolte contro un sovrano o contro una fazione della elite dominante. Vi sono però sorpendenti analogie: in entrambi i contesti, il mondo urbano è popolato da molteplici realtà associative (religiose, economiche, politiche, di vicinato) coinvolte nel governo della città caratterizzato da una natura policentrica. La rivolta, in entrambi i contesti, coinvolge tutte queste realtà associative. Analogie vi sono anche nel variegato panorama giuridico composto sia nel Basso Medioevo italiano che in quello medio-orientale da un groviglio di consuetudini, di leggi secolari e sacre.

Lantschner si interessa non tanto a un paragone tra assetti articolati di leggi, quanto piuttosto tra pratiche che sviluppano i cittadini delle realtà urbane di questi due contesti, per inquadrare le quali trova adatte quelle che nella terminologia weberiana e più recentemente di David d’Avray sono definite come ‘razionalità’. Con questo termine Lantscher intende manifestazioni ripetute e coerenti del pensiero implicanti principi generali, che fungono anche da linee guida del comportamento. Alla base delle rivolte urbane medievali dei due contesti in analisi si incrociano due differenti tipi di razonalità definiti da Weber e d’Avray come ‘l’agire razionale strumentale’ (che tende a scopi specifici ed è puramente funzionale), e l’‘agire razionale rispetto al valore’ (che rimanda a sistemi di convinzioni), che rispettivamente si manifestano nelle regole strumentali alla formazione di coalizioni ribelli e nelle regole di valore che soggiacciono alle specifiche forme di violenza organizzata nelle rivolte di questi ambiti storico-geografici.
Le rivolte in esame non sono animate da turbe incontrollate, ma da una chiara coscienza degli obiettivi da raggiungere da parte dei ribelli. Questo operare strategico rimanda inevitabilmente alla natura policentrica dell città, nel senso che le coalizioni ribelli affondano le proprie radici nelle realtà associative multiple della città. La rivolta si qualifica come una prosecuzione e un’intensificazione della politica di negoziazione portata avanti da queste realtà associative; non si pone quindi in contrapposizione ma in integrazione dell’agire politico dei cittadini. Dal raconto di Ibn Sasrā  (studioso del diritto islamico attivo verso la fine del XIV secolo) della rivolta di Damasco del 1389-90, si evince che le coalizioni conrapposte si organizzano attorno a basi di potere urbano consolidate, come avviene per Minṭāsh, sostenuto dai quartieri periferici di Damasco, e, sull’altro versante, per il sultano, sostenuto dal quartiere di Ḥārat Kilāb, legato al gruppo tribale dei Qays. Anche le associazioni di mestiere dei cambiatori, dei fabbri e dei commercianti di legname svolgono un ruolo importante in questo conflitto. Ibn Ṣaṣrā afferma che le fazioni reclutano sostentori ‘setta (ṭaifa) per setta, mercato (sūq) per mercato, quartiere (ḥāra) per quartiere’. Il quartiere di Damasco al-Ṣāliḥiyya, in particolare, può essere assunto come caleidoscopio delle realtà associative urbane, soprattutto per il peso che qui rivestono i gruppi organizzatisi attorno alle madrasas e alle moschee. Queste rappresentavano canali di accesso alla detenzione di cariche politiche per uno dei fondamentali gruppi sociali delle città medio-orientali, quello degli ʿulamāʾ studiosi e diplomati nelle scuole di diritto. I quartieri, nell’aministrazione mamelucca, erano fondamentali unità fiscali, militari e giudiziarie, e potevano perciò costituire terreno fertile per il fiorire di azioni collettive. Una lunga tradizione stabiliva a Damasco che un intero quartiere potesse essere punito per un omicidio, pagando collettivamente la pena imposta. Un ruolo importante era qui rivestito anche da bande paramilitari (zuʿr), che insorgevano cavalcando proteste citadine contro impopolari politiche fiscali.

 E’ chiara la strumentalità dei movimenti insurrezionali che possono essere avvicinati in questa accezione alle rivolte delle città italiane e fiamminghe. Lantschner sottolinea nel dettaglio le analogie che vede in particolare con la rivolta trecentesca dei Ciompi. Nonostante le ovvie differenze tra strutture politiche pre-esistenti a Damasco e a Firenze, in entrambi le città le rivolte poggiano sulla precedente azione delle unità associative urbane. Latntschner contrappone il modello politico di Firenze alla Verona tardo-medievale e della prima età moderna, dove realtà associative pure vitali hanno un ruolo inferiore nelle rispettive politiche cittadine, dando vita a contrattazioni mediate molto più che a vere e proprie rivolte organizzate. Un quadro simile potrebbe essere quello che caratterizza negli stessi secoli la vita politica del Cairo.

Se queste sono le comuni linee strumentali di organizzazione della rivolta urbana, da quali convinzioni erano sostenute e a che valori tendevano? La richiesta e difesa della giustizia è un comune e ricorrente motivo legittimante delle rivolte italiane e medio-orientali. Questo è vero per la rivolta dei Ciompi, ma anche per rivolte damascene verificatesi a cavallo tra Quattro e Cinquecento, che traggono spesso spunto dall’azione giudiziaria: l’imputazione collettiva a un quartiere di un reato e la conseguente composizione collettiva della pena che viene imposta rapresenta in più di un’occasione il fattore scatenante di una rivolta. Al di là delle analogie, la giustizia comunale italiana e quella dele città islamiche, pur condividendo un certo poilicentrismo e un certo pluralismo normativo, presenta sostanziali differenze.
In conclusione: elementi di affinità tra l’azione politica comunale italiana e quella delle città medio-orientali possono essere rintracciati nel legame delle rivolte con le pre-esistenti realtà associative, di cui la ribellione rappresenta spesso un momento di intensificazione e prosecuzione. Anche l’inquadramento della rivolta in regole e in categorie definite da parte del pensiero giuridico rappresenta un elemento comune, e si manifesta in particolare in una riflessione sul diritto di resistenza. Ciò che più colpisce è la comune integrazione della rivolta in processi politici ordinari, anziché rappresentare un’aberrazione o una negazione dei meccanismi politici all’interno dei quali si situa. 

Marco Di Branco: Cittadinanza e rivolte nel Medioevo bizantino. 

Prende in esame la rivolta di Nika verificatasi nel 532 a Costantinopoli, di cui gli interessano soprattutto i protagonisti, i personaggi, le guide, i δῆμοι legati all’ippodromo, che contaminano e connotano politicamente il mondo tardo-antico del circo. Come si evince dagli Anecdocta di Procopio di Cesarea, che viene sottoposto a un analisi serrata, si tratta di un tema che trascende i fatti specifici e le stesse mura costantinopolitane, perché le fazioni dell’ippodromo che vengono alla luce in questo celebre scontro sono in realtà diffuse in tante altre città dell’Impero bizantino, persino in realtà urbane, come quella della Atene tardo-antica, in cui un ippodromo non esisteva. 

La vita politica delle città bizantine e il ruolo che in essa hanno rivestito le cosidette fazioni del circo è stata oggetto di intenso dibattito storiografico negli ultimi secoli. Alla lettura svalutante prevalsa nel Settecento (Voltaire, Gibbon), e anche nell’Ottocento che tendeva a presentare la storia di Bisanzio come una brutta copia di quella di Roma, si sono sostituite, nel corso del Novecento, articolate interpretazioni (Uspensky, Grégoire, Ostrogorsky) dello scontro politico e del significato stesso delle fazioni: è stato di volta in volta sottolineato il radicamento territoriale delle fazioni nel tessuto urbano bizantino, il coinvolgimento dei suoi componenti nelle milizie cittadine o in compiti concreti come la costruzione delle mura; l’ispirazione religiosa monofisita e ortodossa, il profilo sociale latifondista e commerciale di questi schieramenti. E si tratta solo di alcune delle linee interpretative assunte per spiegare gli scontri politici Che, in seguito, una parte della storiografia sovietica ha cercato di riallacciare alla tradizione rivoluzionaria. 

Una svolta radicale nell’approccio allo studio delle fazioni e degli scontri nelle città bizantine si ha negli anni Settanta del Novecento con la pubblicazione del libro di Alan Camaron, Circus Factions: Blues and Greens at Rome and Byzantium (1976), che contesta l’idea di un radicamento territoriale di questi schieramenti dell’ippodromo. Smontando la lettura politica della storiografia novecentesca. Cameron invoca il concetto di “hooliganism”, svilisce a tifosi da stadio le fazioni dei Blu e dei Verdi, con un’interpretazione che, seppure comprensibilmente vuole prendere le distanze da letture troppo ideologiche della storia di Bisanzio, giunge tuttavia a una semplificazione eccessiva degli scontri bizantini. Il recente libro di Gilbert Dagron, L'hippodrome de Constantinople. Jeux, peuple et politique (2011) rappresenta uno sforzo importante di inquadrare nei corretti termini storico-politici gli scontri bizantini: Dagron si distanzia dalla visione di Cameron che riduce i δῆμοι a bande di hooligans, e ripoliticizza in modo nuovo questi movimenti, sottolineando per esempio l’adesione di Giustiniano a una delle fazioni e il suo ruolo negli scontri e soprattutto attingendo alla categoria di mob cittadino elaborata da Eric Hobsbawm in I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale. Con il mob Hobsbawm aveva cercato di spiegare i moti di rivolta urbani verificatisi agli albori della Rivoluzione industriale –  che definiva pre-politici per indicare non l’assenza di idee politiche, di cui queste sollevazioni erano invece portatrici, ma il carattere primitivo, non evoluto di tali sollevazioni sociali. La stessa categoria aiuta a comprendere le rivolte urbane bizantine e gli schieramenti del circo e le loro rivendicazioni. 

In qualche modo connessi a questo genere di atteggiamenti sono anche le fazioni di sofisti nell’Atene del V secolo, dove esistevano raggrppamenti di studenti che davano vita a veri e propri riti di iniziazione e combattimenti. Anche questi scontri sono stati sviliti da alcuni autori che li hanno definiti playworks, giochi goliardici analoghi a quelli caratteristici di ambienti universitari moderni. In realtà è riduttivo anche in questo caso usare categorie anacronistiche, perché siamo di fronte, come nel caso delle fazioni dell’ippodromo, a forme di ritualizzazione di conflitti già esistenti nella città classica Questi movimenti vanno letti sullo sfondo della disgregazione della città classica che, a partire dal III secolo, passa per smembramenti e per la sostituzione delle antiche strutture di inquadramento della società urbana con nuove modalità. La fondazione dell’Università di Costantinopoli da parte di Teodosio II contribuisce alla crisi di Atene nel V secolo, dove le strutture caratteristiche della polis vanno incontro a un processo di smantellamento  che vede la ritualzzazione di elementi già funzionali alla vita politica. 

Discussione: Nel corso della discussione interviene Sandro Carocci, che interroga Di Branco sulla cautela che occorre prestare a fonti come gli scritti di Procopio di Cesarea e  fa rilevare a Lantschner alcune implicazioni del modello di Verona come città in cui i conflitti passano attraverso i canali ordinari e non sembrano suscitare rivolte. Luca Loschiavo fa notare a Di Branco la presenza nell’età giustinianea di compagnie territoriali armate formate da giovani, forse connessa alle fazioni del circo. Jean-Claude Maire Vigueur sottolinea l’importanza, nell’approccio comparativo, della presenza di giovani (iuvenes) nelle rivolte mezionate. Marco Di Branco fa notare a Lantschner la presenza di correnti specificamente attente al problema della disubbidienza e della rivolta nella Damasco tardomedievale. Più in generale ci si chiede se si possa rinvenire una specificità della rappresentazione di un movimento politico come rivoltoso nei casi descritti, e Giuliano Milani nota come, prendendo le mosse dalle tracce di una nuova esperienza di cittadinanza, ci siamo ritrovati piuttosto a riflettere sulla presenza nei casi analizzati di istituzioni già esistenti, lasciti di epoche precedenti (le associazioni di mestiere, le scuole coraniche, le fazioni, le confraternite di studenti) capaci di condizionare gli sviluppi successivi, incluso l’esito delle rivolte.